È sempre una grande emozione guardare questa foto scattata nella primavera del 1941 e riandare con la memoria a quel mondo magico e incantato che ho vissuto nei primi anni di vita dal 44 fino al 52, tolta una parentesi a S. Croce, comune di Vignolo dove è nata mia sorella Bruna.
In questa foto ci sono le mie radici e lo sguardo va subito a mio nonno Defendente deceduto nell’ottobre 1946, seduto come un patriarca con figli e nipoti attorno. In alto da sinistra Blesio Giovanni che tra poco sarebbe partito con la Divisione Cuneense per la Russia da dove non farà ritorno, mio padre Blesio Attilio ancora da sposare, mio zio Blesio Enrico e la moglie Parola Maria accanto a suo padre Parola Pietro dai lunghi baffi, Parola Maurizio e la moglie Blesio Margherita (Rita), Blesio Maddalena e dietro a lei Parola Natale fratello di Maurizio, Renaudo Giuseppe e la moglie Blesio Maria. Dei figli di Defendente era assente Blesio Luigia che risiedeva a Cuneo e “barba Centulin” – così lo chiamavamo- che era andato in Argentina. In basso nella foto cinque bambini: da sinistra Parola Luigia, Blesio Piera, Parola Caterina, Renaudo Caterina e Renaudo Mario. In braccio a sua madre Renaudo Margherita (Rituccia). Gli altri miei cugini Rosanna, Luciana, Giampiero erano ancora come me – così si diceva- “nel mondo della luna”.
Mi sono domandato tante volte come mai tutta la famiglia si sia trasferita da Cuneo proprio a Roata Cotoni dove a quel punto eravamo la più gran parte dei residenti, ma oggi non posso trovare risposte precise.
Anche quando la mia famiglia si è trasferita a S. Defendente i rapporti con Roata Cotoni sono sempre stati intensi. Oltretutto là avevamo l’orto che, come tutti sanno, ha bisogno di cure continue.
Quando penso a quegli anni rivivo un mondo che mi ha segnato nel profondo. Cullato dall’amore di mamma Mariuccia, che proveniva da Borgo S. Dalmazzo tetti Miola, e papà Attilio, con la sorellina Bruna sono cresciuto sereno e contento.
Con zio e zie lì vicini era come avere più case, luoghi di incontro e centri di affetto quotidiani. Così era anche per i miei cugini con cui si passava il tempo giocando e scorrazzando per la roata, dando sfogo alla fantasia che trasformava tutto in gioco, senza bisogno di giocattoli comprati. Bastava anche un vecchio manubrio da corsa che suonavo come se fosse una tromba. Bastava anche un angolino in cui allevare qualche bigat imitando i grandi, visto che in quegli anni tutti tenevano i bachi da seta.
La vita era semplice, senza le complicazioni di oggi. Le case povere senza comodità, i servizi igienici fuori casa. Il locale più caldo era la stalla.
Mio padre aveva trovato lavoro al Carle. Era fortunato, ma l’orizzonte era sempre il lavoro dei campi allora molto duro. Senza meccanizzazione tutto era manuale. Pensate a cosa voleva dire piantare il mais a mano e curarlo fino alla raccolta, spannocchiarlo e metterlo a seccare. Così ho visto seminare il grano e poi falciarlo a mano, fare le giavele poi le capale dove il grano seccava un po’ e poi si faceva il grande gerbè in attesa della trebbiatura. Allora quel giorno era festa grossa. Grande lavoro e fatica a cui tutti partecipavano, ma poi, finito il lavoro, arrivava la grande tavolata dove tutti cercavano di fare bella figura con i lavoranti. Lì si mangiava bene: era veramente uno stacco dal quotidiano.
Ricordo le gioiose nozze sotto la pantalera di mia zia Maddalena con Angelo, dove anche noi bimbi davamo una mano a preparare: ho inciampato sui gradini di casa mentre portavo una pila di bicchieri e una cicatrice sulla mano mi ricorda ancora quel giorno.
Rivivo l’atmosfera delle serate invernali tutti insieme nelle stalle. Ci trovavamo quasi sempre nella stalla di zio Enrico che era bella grande e calda. Lo stare insieme scaldava anche lo spirito, faceva stare bene, ci si scambiava le notizie che allora circolavano lentamente, mentre oggi in pochi secondi fanno il giro del mondo. Si pregava con la preghiera della sera e si mangiucchiava qualcosa. Zio Enrico aveva quasi sempre delle mele. Soprattutto ricordo Pietro dai lunghi baffi che raccontava storie di masche e di servent che rivivevi nella fantasia come un telefilm. Poi andavi a dormire con un po’ di paura per quelle storie che la mente di bambino ingigantiva e ti coprivi anche la faccia con le coperte.
La fede si respirava con la vita. In casa si pregava insieme e nelle varie occasioni si pregava col rosario insieme e nel mese di maggio lo si recitava al pilone dell’Addolorata a cui sono molto affezionato. Zia Rita guidava il rosario, in un latino che oggi direi “maccheronico”, ma la fede era tanta e ci faceva stare insieme e sentire che eravamo Chiesa anche se lontani dal centro.
A messa si andava a Cervasca, là dove a sei anni ho fatto prima comunione e cresima insieme. Le campane le sentivamo suonare da lontano e mi ricordo il suono della messa della risurrezione il sabato santo che allora si celebrava al mattino; come sentivamo le campane suonare correvamo a lavarci gli occhi con acqua. Non ho mai saputo il perché. Forse perché c’è bisogno di occhi puliti, di un cuore puro, per vivere la fede nel Risorto.
Quanti ricordi! Mi raccontava mamma che avevo dei problemi a digerire il latte di mucca. Papà ha allora comprato una capra che ha sistemato nella stalla. L’abbiamo chiamata Bida. Mi ricordo che la portavo al pascolo con mamma e con il suo latte lei faceva i tomini di cui zio Enrico era molto ghiotto. E quanti pianti facevamo io e mia sorella Bruna quando papà vendeva i capretti a cui tutti ci eravamo affezionati!
Erano tempi in cui molti passavano a chiedere la carità. Passò anche una vecchietta in un momento in cui era malata. Zio Enrico la sistemò in una stanza un po’ isolata e li restò per tanto tempo finché non intervenne il Comune mandandola in una casa di riposo. Si chiamava Ieta (derivazione da Maria?) e la aiutavamo tutti. Mi ricordo le volte che mamma mi metteva qualcosa di buono nel piatto e mi diceva: “Portalo a Ieta”.
Un bel mondo povero ma solidale, Mi rendo sempre più conto che la felicità non sta nell’avere questa o quell’altra cosa ma nella capacità di stare insieme. Sono le buone relazioni che rendono felici e arricchiscono noi e gli altri.
Guardo ancora una volta la foto e i volti dei miei zii e zie.
Zia Rita e Maurizio che coltivava le arachidi e aveva una qualità di pesche dalla polpa rossa fuoco: le chiamavamo persi al vin. Specie che si è perduta!
Giuseppe e zia Maria che sul putagè aveva sempre il perulin del caffè
E faceva delle buone insalate di cui era ghiotta mia sorella Bruna.
Maria e zio Enrico quando faceva cuocere le patate piccole per le bestie e noi ragazzi correvamo subito a mangiarle, la sua stalla come luogo di incontro per tutti, e quando arrivando dal lavoro nei campi chiedeva a mamma se aveva dei tomini freschi…
Ora quel mondo da tempo se n’è andato. I protagonisti della fotografia uno dopo l’altro hanno raggiunto un’altra Roata Cotoni in paradiso tranne Parola Caterina, Renaudo Caterina, Renaudo Mario e Renaudo Margherita a cui auguriamo ancora tanti anni felici. E auguri anche a quanti in quel momento eravamo ancora “nel mondo della luna”.
Don Aldo Blesio