(testimonianza resa nel 2003)

 “La scuola era frequentata da 14 bambini, di tutte le cinque classi (anno 1948).

Le famiglie avevano due o tre bambini e i nonni vivevano con i figli sposati e i nipotini; in quel periodo vivevano a Pratogaudino una ventina di famiglie.

Io dormivo nella stanza accanto all’aula; ritornavo a casa il mercoledì sera e il sabato (se non c’era troppa neve). Se nevicava non passava lo spartineve, ma erano gli uomini di Pratogaudino che, in fila, con la pala facevano un passaggio.

La gente del posto era molto gentile e rispettosa nei miei confronti; ogni volta che scendevano a S. Michele o a Vignolo per le commissioni, mi chiedevano se mi serviva qualcosa; io però cercavo di non approfittarne perché sapevo quanto era faticoso salire a piedi con lo zaino o con la “gòrba” sulle spalle.

Comunque anche loro compravano pochi prodotti (il caffè, lo zucchero, il sale, il tabacco …) perché producevano quasi tutto in casa. Erano tutti contadini; coltivavano le zone meno ripide a orzo, segala, patate; tagliavano l’erba nei boschi e facevano il fieno che sarebbe servito per le loro bestie durante l’inverno; allevavano mucche, pecore, capre, conigli; dai boschi ricavavano castagne e legna in abbondanza. Vendevano vitelli, agnellini, legna, castagne, patate e compravano meliga ed anche il grano della pianura che mescolavano con la loro avena e facevano un pane chiamato “barbarià” (abbastanza scuro). Con il latte preparavano minestre, formaggi, burro. Le donne in inverno filavano la lana delle pecore e facevano calze, maglie, coperte; filavano anche il cotone (che compravano grezzo) o la canapa e tessevano stoffa per lenzuola, federe, camicie, asciugamani. In casa si tingeva anche la lana o la stoffa.

Abitando lassù, d’inverno, andavo a vegliare nelle famiglie dei miei alunni che andavano a gara ad invitarmi: si chiacchierava, mi offrivano le castagne cotte e sempre mi riaccompagnavano alla scuola.

Siccome la scuola è lontana da ogni borgata, a volte, di notte, i rumori del vento mi facevano paura e poi al mattino sorridevo delle mie paure notturne.

Nella mia stanza avevo un letto, una piccola stufa, un tavolo, due sedie (se veniva qualcuno a farmi visita ed eravamo almeno tre persone, andavo in classe a prendere la sedia della cattedra!) e pochi utensili che tenevo in uno scatolone (non c’era l’armadio!).

Durante il giorno stavo nell’aula; di pomeriggio, quando i bambini tornavano a casa, accendevo la stufa nella mia stanza e mentre il locale si riscaldava, tornavo in classe a correggere. Di sera, quando non andavo dalle famiglie a vegliare, passavo il tempo a leggere o a ricamare al lume della candela o della lucerna.

La gente era felice di vivere lassù; era finita la guerra da pochi anni e loro, essendo lontani dalle vie di passaggio, avevano sofferto meno della gente della pianura. Ricordo che, quando lavoravano nei boschi, cantavano ed anche io, mentre scendevo o salivo, lungo la strada, cantavo o fischiettavo; loro mi sentivano e mi salutavano; a volte non ci si vedeva, ma le voci si incontravano e non ci si sentiva soli!

Non sempre seguivo la strada; a volte passavo dall’Aranzone e poi attraversavo la Bandia; altre volte da Vignolo salivo a S. Maurizio e poi seguivo il costone.

Sia in autunno che in primavera era bello camminare in quei sentieri di montagna, pieni di fiori e di colori; anche in autunno c’erano ancora fiori: ricordo boschi pieni di colchici autunnali, le freddoline!”

La maestra Riberi nel 2015