Per la messa e i sacramenti, da Pratogaudino si scendeva a San Michele. Si andava a messa nonostante la distanza. Soltanto a metà ‘700, quando venne demolita la chiesa di San Michele e si tornò per alcuni anni a celebrare al Belvedere, a Pratogaudino non si udivano più le campane e qualcuno si sentiva dispensato dal dovere della messa domenicale.

Nelle borgate c’erano le immagini dei santi, come nel pilone tra le borgate Sottana e soprana.

Una religiosità molto radicata, quella degli abitanti di Pratogaudino, condita anche di elementi appartenenti ad una visione oggi superata del rapporto con il sacro, come le masche. Alla festa di Ognissanti bisognava andare al cimitero e dire il rosario per i morti: lo testimoniava un uomo che aveva trascurato questo impegno ed aveva ricevuto nella serata e nella notte la sgradevole visita di vari animali che riempivano il cortile e salivano sui tetti. Nelle notti d’autunno, intorno alla festa dei Santi, le masche arrivavano in massa: le si potevano sentire trascinare i carretti e attraversare i cieli di Pratogaudino, fino al pian dle masche, dove si fermavano a ballare riempiendo di rumori le notti. Il luogo era lungo il pendio che si incontra scendendo dalle borgate di Cervasca in direzione di Roccasparvera.

C’erano persone che vivevano esperienze particolari di incontro con le anime di coloro che erano già passati: impressionante una testimonianza conservata nell’archivio parrocchiale di San Michele e riguardante l’esperienza di una bambina di 9 anni, Caterina, avvenuta negli ultimi mesi del 1909, raccolta dal maestro Matteo Ristorto e controfirmata dal Parroco, Don Armando, nel gennaio 1910. Della sua prima visione, Caterina racconta: “Ho veduto sopra un castagno vicino alla mia casa, un fantoccio, grosso come un cane, aveva gli occhi grossi come quei del bue, le mani e il viso come un uomo, ma era di carneggione nera, e nera aveva anche la sua veste; saltava da un ramo ad un altro e mi accennava con la mano di avvicinarmi; questo l’ho veduto per due giorni prima della morte di mia madre”. La mamma di Caterina muore, forse di parto. Due giorni dopo il funerale, Caterina rivede la mamma sofferente nel letto; verso sera, vicino al portico, vede quattro persone: una donna con un bambino in braccio, che Caterina riconosce immediatamente come sua madre; poi tre uomini di cui vede solo le teste. La bambina chiede l’identità delle tre persone e la mamma risponde: “L’è Barba Culin, Barba Tita e Barba Pinet”. Le anime chiedono messe e un pilone. Il padre non vede nulla, ma crede alla bambina e il giorno seguente getta per terra dell’acqua benedetta; il gesto fa tornare la mamma, che si mostra con due donne (nonna e zia di Caterina) e molti uomini non conosciuti. Per molti giorni di seguito l’acqua benedetta richiama le “anime”.
Il terzo giorno molti abitanti di Pratogaudino sono presenti alla visione di Caterina. Pietro Giordanengo fa chiedere alle anime cosa vogliano e la risposta è sempre la stessa. Uno zio fa chiedere se ci sia lì il nonno; ma la voce che chiama le persone risponde che non c’è perché “è nelle braccia del Signore”. Ci sono invece due preti conosciuti dalla gente. Non ci sono bambini perché anch’essi sono “nelle braccia del Signore”. Antonio Giordanengo chiede informazioni sull’inferno e sull’ora della morte, ma non ottiene risposta; chiede dei suoi fratelli, ma gli rispondono che c’è solo Pietro perché gli altri sono ormai anche loro “nelle braccia del Signore”. Poi le visioni hanno termine. Caterina riferisce. Il parroco annota che la bambina è “sana, svegliata, intelligente. Racconta le cose con ingenuità, sincerità e convinzione”, che le persone a lei più vicine le credono; chi è lontano non le crede. Pare che Caterina non abbia mai raccontato questa vicenda ai figli e ai nipoti.

La serenità di Caterina anziana