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Chi usa la vecchia toponomastica, con tutti i nomi e i soprannomi per ciascuna borgata, sa che abito a Roà dij Grive.
Roata dei tordi, in italiano, al maschile, mentre in piemontese il nome è femminile. Ma il significato è un altro. Eccole le Grive, in una foto dei primi anni del 900.
La prima casa della borgata, oggi demolita, apparteneva alle figlie di Antonio Bramardi, zio di mio padre, e di Barbara Parola. Tutta la borgata anticamente era dei Bramardi, che avevano qui comprato ad inizio ‘800, dividendosi dai parenti rimasti nella cascina sul canale Rosa, dove erano giunti dalla Comba, terra di origine dei Bramardi.
Le Grive da bambine abitavano stabilmente a Cervasca, dove erano state tutte battezzate. Il padre aveva un’attività commerciale altrove e la casa di Cervasca da un certo punto in poi serviva solo per soggiorni brevi, scampagnate, merende con amici. Di questi momenti di vacanza, resta traccia nelle foto recuperate nella casa in Torino, che nostra madre collaborò a ripulire, recuperando immagini, ricordi, cappelli… pezzi di storia.
Nelle foto che conserviamo, vediamo signore eleganti sedute nel giardino davanti a casa, sotto un pergolato, a conversare o leggere, da sole o in piccolo gruppo oppure sedute nel prato, appena dall’altra parte della stradina, a far merenda in piacevole compagnia di amici borghesi. Mentre i contadini lavoravano duro nei campi…
Le Grive erano davvero una bella nidiata. Nove, tutte ragazze, belle e in gamba. La più vecchia, Margherita, era nata nel 1877; Nini, la più giovane, nel 1898. Se il padre fosse contento di tante femmine, non è dato sapere. Eccole nella foto in alto; dietro le più anziane (Angela, Margherita, Clotilde e, superba e bellissima, Maria) con l’abito bordato di bianco e i capelli raccolti sulla testa. Con le lunghe trecce o i capelli sciolti, le altre quattro, Romana, Barbara, Giovanna e Anna Maria, registrata in comune come Celesta Anna, vicino al papà. Anche loro eleganti, con l’abito a pois o fiori e gli stivaletti ai piedi. Infine, tra padre e madre, con il vestitino bianco e i capelli sciolti, Rosa detta Nini.
Non conosco la storia di tutte. Soltanto tre si erano sposate e due hanno avuto figli. Romana ebbe gravi problemi di salute. Lo seppi da un certificato medico recuperato sul mercatino di antiquariato di Cuneo, venduto da chi evidentemente aveva sbaraccato la casa cuneese dei nipoti. Forse poi le cose andarono meglio, perché andò a vivere nella famiglia del Conte G., in un ruolo tipo governante. Ma non sono sicura che si trattasse di lei. Di Barbara, oltre alle tante camicie ricamate e mai usate, abbiamo un ricordo triste, il rosario davanti al suo cadavere… che impressione…
Giovanna si sposò avanti negli anni, non ebbe figli e viveva in Francia. La ricordiamo molto gentile anche con noi bambine, un po’ grossa, con problemi alle gambe. Non posso dire altrettanto di Maria, che noi chiamavamo Maria ‘d Turin. Quando il gruppo delle più giovani andò a vivere a Torino, lei veniva spesso e si fermava a lungo. La ricordo che usciva dalla cucina con il bicchiere del caffè in cui aveva annegato un pezzo di burro (si usava così) che faceva sciogliere con il grissino, esibendo il suo modo di vivere da signora. Nostro padre scuoteva la testa, Parin la detestava, ben a ragione.
A Torino aprirono una sartoria in Via Assietta. Qui ospitarono nostro padre nel ’45, di ritorno dalla guerra. Titolare del laboratorio era Celeste. Ebbero successo. Conservo la brochure di una sfilata di presentazione di modelli creati da Case torinesi, al teatro del Palazzo delle esposizioni il 19 aprile 1949. C’era il musicista all’organo e una piccola ballerina si esibiva mentre sfilavano i modelli per bambini. Gli abiti di Celeste erano accompagnati da cappelli Quagliotti, borsette Varda, calzature Lionne.
Le foto raccontano anche di gite sulla collina torinese, in montagna, al mare. Probabilmente fecero anche soldi e, con la ricchezza, arrivarono i profittatori. Tra questi, un signore che procurava grandi affari alle donne sole e ingenue come le cugine, che investirono tutto nell’oro che sarebbe presto arrivato. Non tardò molto che successe quel che persone più avvedute avrebbero potuto immaginare: sparirono contemporaneamente il filibustiere, l’oro e, soprattutto, i soldi. Sul lastrico, le sarte si trasferirono in un grande alloggio al quinto piano di un palazzo di via xx settembre, che subaffittavano a studenti e insegnanti, con uso della cucina e del bagno. Continuarono a cucire, ma non tornarono più ai fasti precedenti.
Negli anni dell’università, passavo spesso dalle due rimaste, a salutare e posare il pacco di prodotti della terra che mia madre aveva preparato, mentre nostro padre scuoteva la testa e Parin borbottava. Rimasta sola, Nini veniva qualche volta d’estate a casa nostra. Manteneva le abitudini da signora torinese, per noi sconosciute, ma era una compagnia piacevole.
Otto di loro riposano nel cimitero di Cervasca, insieme alla madre e ai due figli di Margherita, benefattori della parrocchia.
Maria Bramardi