Questa fotografia ritrae i nostri genitori (Bramardi Domenico, classe 1913 e Giraudo Anna Maria, classe 1924) il giorno successivo al loro matrimonio, celebrato nella parrocchia di Santa Croce il 6 ottobre 1945 dal parroco del tempo, don Pietro Rocchia.
Era il cosiddetto giorno dell’arnòss, pratica diffusa di fare festa il giorno dopo il matrimonio, questa volta a casa della sposa, alla cascina Fantina di Santa Croce. Gli sposi, infatti, non vestono gli abiti della cerimonia nuziale perché era un momento più informale, a chiusura dei festeggiamenti.
Per il matrimonio in chiesa, invece, nostra mamma aveva indossato un vestito lungo color celeste con velo bianco, tipico degli anni ’40; seppur meno appariscente di quelli di oggi, era ben fatto, confezionato e ricamato a mano da una sarta esperta.
Aveva raggiunto la chiesa con la dòma che, per l’occasione, era stata agghindata con fiori e pennacchi per il cavallo.
Durante il percorso, da casa alla chiesa, sul ciglio della strada, vicini e conoscenti erano accorsi a salutarla come segno augurale di partecipazione, ma anche di curiosità.
La “location” della festa era l’aia di casa che meglio esprimeva la convivialità, l’allegria, il buon augurio di parenti e amici intorno agli sposi che incominciavano la loro vita insieme.
Nell’immediato dopoguerra, nei nostri paesi, sia il pranzo di nozze, sia il rinfresco, venivano fatti in casa. I nostri genitori raccontavano che i preparativi cominciavano già molti giorni prima della data prefissata; c’erano le grandi pulizie: si imbiancavano le stanze migliori che servivano all’accoglienza degli invitati, si riordinava il cortile, ritirando le galline nel pollaio e per ultimo si preparava la “stanza degli sposi”, unico angolo di intimità familiare, considerato che essi rimanevano a vivere in famiglia.
Per l’occasione, sotto la pantalera si allestiva il tavolo lungo su cui si stendeva la tovaglia bianca di lino e la lunga fila di piatti, tutti ben allineati, quelli del servizio buono, con il filino d’oro sul bordo. Il menu del pranzo nuziale era fatto di cose semplici e genuine (tra queste, le raviole al ragù), preparate dalla cusinera che era stata chiamata per l’organizzazione, aiutata dalle donne di casa che si davano da fare, ciascuna per quel che sapeva e poteva, alla buona riuscita del banchetto; contava molto, di fronte a parenti e amici, “fé bela figura”. Per il brindisi, invece, si stappava il vino buono, quello appositamente conservato per la festa.
Intorno agli sposi, la presenza dei suonatori; una fisarmonica e un clarinetto erano sufficienti per rallegrare l’atmosfera e suscitare la voglia di aprire le danze.
E tutti si lasciavano trasportare dall’euforia che le note di valzer e mazurche diffondevano nell’aria, come a voler prolungare all’infinito quegli attimi di gioiosità e divertimento che la guerra per tanti anni aveva precluso, lasciandosi finalmente alle spalle gli avvenimenti dolorosi di cui erano stati spettatori.
Si festeggiava fino a sera inoltrata; il giorno dopo, la vita sarebbe tornata alla normalità, probabilmente al lavoro nei campi che a quel tempo era ancora duro e faticoso. I segni della guerra, appena finita, erano ancora tangibili, ma il desiderio di costruire un futuro prospero animava la speranza di tutti.
Tutto questo, la fotografia non lo descrive, ma i racconti e la storia dei nostri genitori rappresentano “questa memoria del cuore”. E ci par di sentire, in quel momento di festa che la fotografia ci propone, le voci allegre, che alzando il calice del vino buono, brindano “Viva, viva ij spus”.
Una nuova vita si prospettava loro, davanti.
Luciana e Tonino Bramardi